La conversazione è indispensabile per l'uomo!

Da Focus n. 251-2013:


Di cosa parliamo quando non parliamo di nulla? Gli psicologi lo sanno. E ci spiegano a che cosa serve
Non ci sono più le mezze stagioni! Eh sì, questo articolo inizia male, con una frase simbolo di quegli scambi di parole senza apparente scopo né vero contenuto informativo che a volte (anzi, più spesso di quanto notiamo) intratteniamo con gli altri. Conversazioni di questo tipo capitano continuamente, in particolare quando si ha poca confidenza con l'interlocutore. Sotto l'ombrellone («Che caldo oggi, eh?», «Eh, pensi che questo inverno ci lamentavamo per il freddo»), col vicino di casa («Tutto bene in famiglia?», «Sì, grazie. Voi?»), tra chi si incontra a una festa («Quanta gente stasera!», «Davvero, non ci si muove»). Chiacchiere formali e inutili? Solo in apparenza: questi scambi sono importanti per rinsaldare i rapporti sociali e per gestire le conversazioni. Perché diciamo molto anche quando... non parliamo di nulla.
Spreco di fiato? «Quelli che potrebbero sembrare dialoghi inutili, prevedibili, superficiali, nei quali non si pongono reali interrogativi e non si attendono risposte originali, sono invece fondamentali per la gestione e la costruzione delle relazioni umane» chiarisce Valentino Zurloni, docente di psicologia delle organizzazioni e della comunicazione all'Università di Milano-Bicocca. La prima funzione? «Rappresentano il segnale che la comunicazione tra due persone è aperta» dice Zurloni. Espressioni come «Allora, eccoci qui» o «Come andiamo?» servono cioè a stabilire un contatto quando ci si trova di fronte: sono l'analogo del «Pronto?» al telefono. Gli studiosi la chiamano «funzione fatica» del linguaggio (dal latino «fari», pronunciare, parlare): il termine è stato coniato dall'antropologo polacco Bronislaw Malinowski. Si riferisce a quei messaggi che hanno lo scopo di stabilire, verificare o interrompere un contatto. Si va dalle formule di saluto alle frasi per rompere il ghiaccio. «Ci sono tre fasi della conversazione: apertura, sviluppo e chiusura» aggiunge Carlo Galimberti, docente di psicologia sociale della comunicazione all'Università Cattolica di Milano. Uno scambio di battute può così funzionare da «antipasto» per entrare nel cuore della discussione. «Anche tra amici non si entra a gamba tesa in un argomento, serve la fase di passaggio dei saluti e dei convenevoli» continua Galimberti. Funziona così anche, per esempio, nei colloqui di lavoro («Ha trovato traffico per arrivare?»). Allo stesso modo, quando la conversazione va verso la chiusura, non si può troncare di punto in bianco: per congedarsi senza strappi, usiamo infatti formule come «Vedremo come andrà a finire» o «Ne riparliamo presto». Non ci sono solo le formule d'esordio o chiusura. Le chiacchiere di cortesia - la conversazione fine a se stessa che in inglese è definita small talk - rispondono a molti nostri bisogni sociali. Le battute che scambiamo con un negoziante o alla macchinetta del caffè, anche se non trasmettono alcuna informazione pratica, sono essenziali per entrare in contatto con gli altri, confermare o rafforzare le relazioni. «Il linguaggio è un bisogno profondissimo: non possiamo farne a meno» dice Ludovica Scarpa, docente di teorie e tecniche della comunicazione interpersonale all'Istituto universitario di architettura di Venezia (Iuav). Ecco perché ci piace tanto chiacchierare, anche quand'è fine a se stesso.
E Robin Dunbar, antropologo dell'Università di Oxford, paragona il nostro intrattenerci in small talk e pettegolezzi al «grooming», cioè all'attività di pulizia reciproca, degli altri primati: serve a produrre coesione sociale e a mitigare i conflitti. Invece di spulciarci a vicenda, insomma, ci trastulliamo in cicalecci che rinforzano le relazioni tra amici, colleghi, semplici conoscenti o sconosciuti. «Rivolgersi la parola in modo cortese è un po' l'equivalente di ciò che fanno gli scimpanzé quando alzano le labbra e mostrano i denti chiusi ai propri simili. Il senso è: «Non ti mordo, non ho intenzioni aggressive» aggiunge Zurloni. La conversazione, insomma, aiuterebbe a sgombrare il campo da pensieri ostili.
Scambio obbligato. Anche perché, se s'incontra qualcuno, si deve avere uno scambio: in alternativa si aggredisce o si fugge, ma non ci si può ignorare. Ecco allora che scattano formule di circostanza e si chiacchiera del più e del meno. «Quando si è costretti in uno spazio ridotto, come in un'auto, in ascensore o al ristorante, il silenzio prolungato tra due individui può risultare intollerabile» chiarisce Zurloni. Pur di cavarsi d'impaccio, si parla: non importa di che. «Nella nostra cultura, il silenzio è vissuto come imbarazzante, non parlare significa quasi non considerare l'altro un essere umano» puntualizza Scarpa.
Approccio. Imbarazzi a parte, l'arte della conversazione ci soccorre anche nelle occasioni conviviali. «E’ una mossa per tastare il terreno e, allo stesso tempo, comprendere chi abbiamo di fronte» aggiunge Scarpa. Lo sa bene chiunque abbia tentato di attaccare bottone a una festa. Se a un generico approccio, del tipo «Bella la musica, vero?», segue una risposta a monosillabi, o infastidita («Detesto questo genere»), meglio rinunciare; se la reazione è sulla stessa lunghezza d'onda («Sì, bravo questo dj»), il messaggio è che c'è margine per conversare. A quel punto, le chiacchiere di circostanza, anziché esaurirsi dopo due o tre rimpalli, possono diventare il lubrificante per intavolare una discussione più ricca. La chiacchiera aiuta, in particolare, nella fase di rodaggio degli incontri. Per quanto la sostanza sia insignificante, la forma di questi scambi è l'ideale (impegna poche risorse sul piano cognitivo ed emotivo) per tararsi, cogliere le pause, capire quand'è il momento di parlare o cedere il turno. «Tutto ciò richiede un certo impegno, soprattutto tra estranei o persone che si conoscono poco» prosegue Zurloni. «In queste conversazioni, l'attenzione è focalizzata sull'entrare in sintonia: il come si comunica è molto più importante del cosa si dice».
Regole. Pazienza, insomma, se la conversazione non raggiunge grande profondità. «Romàn Jakobsòn, linguista e semiologo russo, considerava le conversazioni di circostanza come «un'anomalia», il fallimento della comunicazione perché prive di messaggio» aggiunge Zurloni. Ma il punto è che la comunicazione va oltre le parole. «Conta tanto ciò che si legge tra le righe» chiarisce Galimberti. «Il linguaggio non serve solo a comunicare contenuti, ma anche a modellare le relazioni: persino la conversazione più vacua è in grado di mettere in luce che relazione e che grado di confidenza ci sono con l'altro, attraverso segnali verbali e non, dalle espressioni usate al timbro e tono della voce alla distanza fisica».
Ma perché si finisce a parlare di temi come il tempo? Perché gli argomenti devono essere «trasversali, condivisi, accessibili a tutti: il tempo atmosferico, la salute (in termini generici), le vacanze, i piani per il fine settimana, lo sport (soprattutto per gli uomini), i programmi televisivi, la notizia del momento» dice Galimberti. Spesso l'appiglio è offerto dalle circostanze: a un matrimonio, il terreno comune tra estranei saranno gli sposi; tra colleghe lo spunto può essere un complimento; al parco si parla di cani o bambini. Solite domande, solite risposte. Eppure gestirle richiede dimestichezza. Bisogna mettere a proprio agio l'altro, mostrarsi cortesi e interessati, senza risultare invadenti. «Esistono alcune regole di small talk per evitare di creare disagio» dice Scarpa. «Non si parla di argomenti che rischiano di appassionare troppo, di ferire o provocare, come ideologie politiche e religiose, è preferibile astenersi dai giudizi duri o difendere con foga il proprio punto di vista». E’ un campo neutro e un po' fittizio, quello della chiacchiera, non un vero confronto: quello, semmai, verrà dopo. Ecco perché se si domanda «Tutto bene?» non sono richiesti dettagli su salute e vita privata («Mi sono appena separato»), ma un convenzionale «Tutto ok».
Paese che vai... All'estero, però, bisogna avere qualche accortezza in più. Vietato chiedere dello stato di salute a un giapponese (è considerato offensivo) e in Ghana l'argomento meteo è da scansare (è sinonimo di siccità). In Mali due persone che si incontrano si rivolgono una serie di domande sulla famiglia. «Addirittura, in alcune popolazioni delle Antille o della Polinesia, ci si mette di spalle e si inizia a parlare contemporaneamente, si fa una pausa d'elaborazione, e si riprende in simultanea: è un rituale che stravolge completamente le nostre regole» racconta Zurloni. Insomma, altro che banali. Le chiacchiere sarebbero l'ossatura della nostra convivenza. Forse non è un caso che il successo dei social network si fondi in buona parte sulle ciance quotidiane. In fondo, come fa dire Oscar Wilde a Lord Goring in Un marito ideale, «Mi piace parlare di nulla... E l'unica cosa di cui sappia qualcosa».


Di Daniela Cipolloni.