Come far credere come vero ciò che non lo è!

Da Voce Nostra Numero 23 del 2012


Si avvicinano le elezioni politiche. Come si fa a scoprire chi dice la verità?



Come si giudica la sincerità di un candidato o di una pubblicità? Gli psicologi svelano i trucchi per farci credere vero ciò che non lo è
Si avvicinano le elezioni politiche e come sempre l'elettore torna a chiedersi di chi dovrebbe fidarsi e come giudicare la sincerità dei candidati. Posto che in Italia lo scetticismo nei confronti dei proclami dei politici è ormai radicato, come si capisce se chi ci sta di fronte sta dicendo la verità? Non è semplice, perché come spiega una ricerca recente i metodi con cui il nostro cervello può essere «ingannato» sono tanti. E forse politici e pubblicitari li conoscono ancora meglio degli psicologi che studiano l'argomento.
«Truthiness» - Gli autori dello studio sono partiti dall'analisi di quella che negli Stati Uniti chiamano «truthiness», neologismo inventato dal comico Stephen Colbert durante l'era Bush per indicare ciò che percepiamo come verità «con la pancia», ma che non necessariamente è davvero la realtà dei fatti. Un concetto con implicazioni non da poco visto che oggi larga parte della comunicazione solletica proprio la truthiness (non ultimo lo faceva appunto Bush, nelle dichiarazioni post 11 settembre che hanno suggerito a Colbert il neologismo): televisione, giornali, spot ci dicono ciò che vorremmo sentirci dire (gli esempi in politica si sprecano), ci colpiscono emozionalmente facendoci credere vero qualcosa che non per forza lo è, ma che nel profondo vorremmo che lo fosse. «Quando le persone valutano la veridicità di un messaggio spesso si basano su questo soggettivo senso di verità, sulla truthiness appunto. Con i nostri esperimenti abbiamo voluto capire che cosa influenza la percezione di verità e come questa possa essere alterata», spiega Maryanne Garry, la psicologa dell'università neozelandese di Wellington responsabile della ricerca. Quattro gli esperimenti condotti su volontari per capire un po' meglio come decidiamo se qualcosa ci «puzza di vero» o meno: nei primi tre ai partecipanti venivano sottoposti i nomi di persone più o meno famose, associati o no a una loro fotografia o una descrizione, dicendo «questa persona è viva» oppure «questa persona è morta» e chiedendo di decidere se tale affermazione fosse vera o meno; nel quarto esperimento ai volontari veniva chiesto di giudicare la veridicità di asserzioni banali, che non coinvolgevano personaggi famosi (per esempio «la giraffa è l'unico mammifero che non riesce a saltare»), anche in questo caso accompagnando il test con fotografie o no.
Informazioni - Tutti i test hanno dimostrato che quando decidiamo dell'attendibilità di un'affermazione siamo influenzati dalla presenza di immagini o descrizioni al contorno, anche se queste non necessariamente ci aiutano a capire se la frase è vera o falsa: quando il nome dei personaggi era associato a foto o descrizioni, i partecipanti ai test tendevano a ritenere vera la dichiarazione sul loro conto, qualunque essa fosse. E' successo anche con le affermazioni più banali: se accanto alla frase sulla giraffa che non riesce a saltare veniva presentata la foto di una giraffa, i soggetti tendevano a giudicare autentica l'affermazione. «Le informazioni aggiuntive al contorno di una dichiarazione, qualunque essa sia, probabilmente ci aiutano a formare una sorta di pseudoevidenza» dice Garry. «In sostanza traiamo da foto o descrizioni elementi che sono coerenti con l'ipotesi dell'affermazione e ciò ci consente di costruire una «impalcatura» veridica dell'assunto oltre a favorire la sensazione di truthiness: «di pancia» sentiamo che quell'affermazione è vera, anche se razionalmente nulla ci soccorre nell'esserne certi».
Fluenza - Secondo la psicologa inoltre la presenza di foto o informazioni aggiuntive concorre a un fenomeno che gli studiosi chiamano «fluenza»: quando dobbiamo decidere se qualcosa è vero o falso la nostra mente cerca di ricordare frammenti informativi attinenti, così se ci viene detto «Stephen King è vivo» il cervello si metterà al lavoro ricordando di aver sentito parlare di un suo ultimo libro e così via. Ebbene, più facilmente è possibile richiamare questi dati più è probabile giudicare vera l'affermazione: la presenza di foto o descrizioni a corredo di una dichiarazione aiuterebbe questo processo di recupero, facendoci propendere per credere a ciò che ci viene detto. Se allora la nostra credulità è tanto malleabile, meglio stare in campana ed essere più prudenti quando decidiamo di credere a qualcosa che sembra convincente: visto che basta relativamente poco per farci «abboccare», è opportuno giudicare le affermazioni di un politico o uno spot pubblicitario non solo sulla base dell'emotività, ma con un'analisi razionale. Se accanto a un intervento su un giornale vediamo la foto dell'autore tenderemo a prenderlo per buono, se la pubblicità di un prodotto è associata a una foto o una didascalia saremo portati inevitabilmente a credere al «claim»: sapere che il nostro cervello funziona così può aiutarci a essere più cauti.